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Mattinata, ispettore polizia rivela incontro nella masseria del boss. “L’imbeccata” alla vecchia giunta

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Il silenzio imbarazzante di prefetto e questore risulta ancora più fragoroso dal verbale di trascrizione della conversazione tra il vice dirigente del Commissariato di Polizia di Manfredonia e l’attuale sindaco di Mattinata, nella quale emergono in maniera più netta tutte le opacità e anomalie della gestione amministrativa del piccolo comune garganico dove, da qualche settimana, è attiva la Commissione d’accesso agli atti per verificare presunte infiltrazioni criminali a Palazzo.

Su questa testata abbiamo già fatto riferimento all’incontro tra il primo cittadino, Michele Prencipe e l’ispettore di polizia, Bartolomeo D’Apolito. Sul verbale ecco spuntare l’intercettazione trascritta dai carabinieri grazie alla registrazione fornita ai militari dal sindaco Prencipe.

Il sindaco, infatti, col proprio smartphone, captò tutta la chiacchierata con l’ispettore che nel 2015 contattò Prencipe dopo aver saputo che sarebbe stato revocato l’incarico di assessore al figlio Raffaele D’Apolito: tutt’ora consigliere comunale. I due si incontrarono ad agosto 2015 presso un distributore di carburante sulla SS89 tra Mattinata e Vieste.

D’Apolito: ti aspettavo in qualche altra veste, tu stai con la motocicletta? 

Prencipe: sto con la motocicletta perché non posso cacciare la macchina dal garage. 

D’Apolito: scusa se ti ho… io devo dirti una cosa abbastanza riservata… questo che ci stiamo dicendo rimane tra me e te… non ho nemmeno parlato con Raffaele (il figlio all’epoca assessore in carica, ndr) di queste cose qua… perché sono cose… che è meglio non… tu sai che io sono stato a qualche “reparto” molto importante di Manfredonia e gli amici… tutto sommato ce li ho ancora… Un amico… collega fraterno… dato che è successo anche l’altra volta con l’altra vecchia… 

Prencipe: amministrazione… 

D’Apolito: eh… un fatto però… molto più grave di questo in poche parole… mi ha detto ma il sindaco che roba è? Ti hanno sentito al telefono…

Prencipe: Ah!

D’Apolito: con qualche personaggio… di Mattinata che stanno monitorando!

Prencipe: chi cazzo è questo poco raccomandabile, omissis (un piccolo criminale del posto, ndr)? (ride) Non penso che deve venire questo per dire che è poco raccomandabile.

D’Apolito: lo so… 

Prencipe: se omissis è poco raccomandabile! 

D’Apolito: no… Michele… 

Prencipe: chi cazzo li ha rapporti… con questo… 

D’Apolito: no Michele … io l’unica cosa che… cioè questo è una persona… una persona… un amico fraterno… proprio… non è uno…(incomprensibile)… non è che uno ti dice certe cose così come se niente fosse… ecco… sentimi a me… vedi la situazione che è successa pure a Monte (Comune che era stato sciolto per mafia poche settimane prima, ndr)… però… (inc

Prencipe: no… come fai una cosa (ride) … 

D’Apolito: per l’amore di Dio… Michè… eh… però Michè… lascia perdere… che… un’altra volta… un’altra volta l’abbia… lui non ne sa niente di questa storia… lui non ne sa niente…  però… però lo abbiamo liberato da una situazione, di questa storia non ne sa ne niente lui ne niente… altre persone che lo hanno… “schivato” da una situazione che forse se quello si appiccicava allora in quel momento… la fine di mezzo la facevamo molto prima.., perché quando tu vai a sederti in una masseria e vai a concordare determinate cose…

Prencipe: Ah!

D’Apolito: con certi nomi… omissis e company… bell… bell!

Il riferimento sarebbe ad un vecchio incontro avvenuto tra pezzi della vecchia amministrazione targata Lucio Prencipe e un noto boss locale nella masseria di quest’ultimo. Cosa sanno questi agenti a riguardo? Questore e prefetto sono al corrente di ciò? E se sì, perché tacciono? 

D’Apolito: abbiamo fatto un grande miracolo l’altra volta… però lui (sempre il collega poliziotto amico fraterno, ndr) non è che sa i fatti perché lui non vive qua tra l’altro… però sa la situazione… non mia… di mio figlio… che lo conosce da quando era ragazzino e mi sono… si è permesso di darmi “l’imbeccata”…

Prencipe: l’imbeccata…

D’Apolito: l’imbeccata… così… insomma hai capito… quando uno… stanno quelli che ti vogliono bene e quelli che ti vogliono malamente… […] in generale… non pensare che i magistrati pure oggi non pensare che sono… sono le persone…. io sai quante ne ho viste di queste situazioni… che a volte il trave grosso non vedono però vedono la pagliuzza… hai capito il discorso? 

Prencipe: quello è sicuro…

D’Apolito: allora è meglio che dice… pure la paglia è uscita…

Dunque secondo un ispettore di polizia vi sono Magistrati di Foggia che usano diverse misure: chi sono e perché? E questo anche il motivo per cui la mafia nel Foggiano non è mai stata riconosciuta nel passato?

Chi sono davvero i servitori dello Stato? E infine: la commissione Antimafia, presieduta dall’onorevole Rosy Bindi, verrà messa a conoscenza di questa vicenda che tira nel centro del vortice finanche giudici e pubblici ministeri? 


Società Foggiana, clan Gargano e mala di Cerignola: la “cupola” possibile

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“I clan della mafia foggiana infiltrati nelle imprese attraverso le estorsioni mensili e le assunzioni fittizie di soggetti imposti dai gruppi criminali che percepiscono regolari stipendi senza lavorare”. È il quadro emerso dalla relazione annuale 2016 della Dna (Direzione nazionale antimafia) sulla criminalità in Capitanata. La “mafia degli affari”, conosciuta come la “Società Foggiana”, cresce e si evolve, per nulla scalfita dal lavoro, seppure egregio, di forze dell’ordine e magistratura. Viene definita “impenetrabile, spietata e pericolosa a causa dello spessore qualitativo degli affiliati”. E ancora: “I clan sono ormai proiettati verso un inarrestabile processo di infiltrazione non solo di tipo economico ma anche amministrativo-politico nella società civile”. Da qui il riferimento al caso di Monte Sant’Angelo, comune sciolto per mafia nel 2015 e dove, nonostante le recenti elezioni, continuano ad emergere troppe opacità, evidenziate dalla presidente della commissione antimafia, Rosy Bindi. Mentre più di recente le attenzioni si sono spostate su Mattinata, altro Comune a rischio.

Sulla relazione si evidenziano differenze con altre organizzazioni pugliesi: “La mafia foggiana è capace di programmare e attuare strategie criminali sia con clan del territorio sia con sodalizi campani e calabresi”, rispetto alla mafia barese considerata più propensa “a inseguire gli affari lucrosi con metodi che privilegiano l’immediatezza del risultato e il contenimento dell’impegno rispetto all’elaborazione di complesse strategie”.

Stando alla relazione, i mafiosi foggiani riescono a “riorganizzarsi prontamente”, anche a poche ore dai blitz delle forze di polizia. Poi il passaggio sulle batterie del capoluogo, storicamente divise in tre clan: Moretti-Pellegrino-Lanza, Sinesi-Francavilla e Trisciuoglio-Tolonese. “Ciclicamente si fanno la guerra, come risulta negli ultimi mesi, e poi si accordano per spartirsi gli affari. Sarebbero oltre 300 gli affiliati e i contigui. La “Società” gode anche del ruolo subalterno della mala sanseverese mentre un’organizzazione criminale che sembrerebbe del tutto separata e autonoma, è quella cerignolana, attiva nel traffico di droga ma anche in settori come riciclaggio auto, rapine e furti milionari in diversi angoli dello Stivale.

Infine, il Gargano dove soprattutto a Vieste è in corso una guerra senza esclusione di colpi tra gli “scissionisti” capeggiati da Marco Raduano, giovane boss desaparecido da alcune settimane, e i Notarangelo. Tra Manfredonia e Mattinata ecco invece il clan Romito, storica organizzazione operante in quel territorio da tempo. A Monte Sant’Angelo i Libergolis, colpiti negli ultimi anni da diversi procedimenti giudiziari che ne hanno scalfito l’egemonia. Non mancano i collegamenti, soprattutto tra mafia garganica e foggiana. Già in passato proprio i foggiani avrebbero favorito la latitanza di Franco Libergolis, noto boss montanaro. Più di recente il questore Silvis non ha escluso possibili unioni tra le varie realtà criminali.

La Società, i clan di Cerignola e quelli garganici sono ancora separati, ma – secondo gli inquirenti – potrebbero amalgamarsi e creare una cupola estendendo la loro influenza al di fuori del territorio nel quale hanno agito finora. Del resto, anche la relazione parla di una situazione “fluida” e pone l’accento su una realtà feroce e impenetrabile che due mesi fa il procuratore nazionale Antimafia, Franco Roberti, ha definito la quarta mafia

Infiltrazioni sospette, su Monte Sant’Angelo ancora l’ombra del malaffare?

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Nonostante il resoconto della Commissione Antimafia che lo scorso 8 giugno ha posto l’attenzione sulla presenza, tra i candidati di Monte Sant’Angelo, di soggetti “prossimi a esponenti della criminalità locale” – parole del presidente, Rosy Bindi, il nuovo consiglio comunale avrebbe ancora troppi elementi di continuità con la precedente amministrazione sciolta per infiltrazioni criminali nell’estate 2015.

Abbiamo ricostruito la rete di parentele, frequentazioni e pacchetti di voti dietro il nuovo governo cittadino. Nella giunta guidata da Pierpaolo D’Arienzo, compare nel ruolo di assessore ai Lavori Pubblici, Michele Fusilli, nipote del pregiudicato e caposettore del Comune di Monte Sant’Angelo, Domenico Rignanese. Per quest’ultimo, il prefetto di Foggia, nella relazione di scioglimento, chiese il rinvio a giudizio presso la procura di Foggia. Circa il pacchetto di voti: Fusilli è fratello dell’eletto consigliere comunale, Antonio Fusilli (circa 900 preferenze, tantissime). Antonio Fusilli è molto chiacchierato in paese per il suo ruolo all’interno dell’Inps attraverso il quale gestirebbe tutte le pratiche provenienti da Monte Sant’Angelo. Dinamiche che avrebbero reso la sua figura di riferimento nel centro micaelico.

Assessore alla Cultura, Rosa Palomba, spesso accompagnata in campagna elettorale da Matteo Falcone (storico discepolo dell’ex sindaco Antonio Nigri, quest’ultimo sostenitore di D’Arienzo), zio di Salvatore Ricucci (detto “Salvino Fik Secc”, cugino del capomafia di Macchia).

Assessore agli Affari Generali, Giuseppe Totaro. Qui spunta la famiglia Rosa. Totaro è cugino di primo grado della madre di Ivan (assassinato) e Antonio Rosa. E passiamo all’assessore alle Attività Produttive, Generoso Rignanese, ritenuto vicino al genero del defunto Antonio Miucci (assassinato) nonché cognato del boss Enzo Miucci ossia Roberto Ciociola. Il neo assessore sarebbe solito frequentare anche altri membri della famiglia Miucci come Luigi Miucci (figlio di Matteo, anche lui assassinato). Rignanese è anche cugino del pluripregiudicato, Michele Sforza. 

Tocca ora all’assessore ai Servizi Sociali, Agnese Rinaldi, sostenuta dall’incandidabile Vincenzo Totaro (assessore nell’amministrazione sciolta). La Rinaldi ha ottenuto tantissimi voti. Preferenze che non avrebbe mai potuto ottenere dato che era arrivata alle elezioni da semi-sconosciuta. Mai la sua famiglia ha avuto un pacchetto di voti così importante, quasi 800. Il fratello, l’ultima volta che si candidò alle Comunali, ottenne una trentina di voti.

E ancora, il presidente del consiglio comunale: Giovanni Vergura, sostenuto dalla cooperativa “l’Arcangelo”, più volte citata nella relazione prefettizia (cooperativa che gestisce i servizi igienici in città) e dal gruppo di persone che gestisce il parcheggio comunale (tutti soggetti citati nella relazione). 

Nel consiglio comunale troviamo, inoltre, Mattia Benestare, nipote del socio in affari e politica dell’incandidabile Damiano Totaro, cugino del pregiudicato Matteo Pettinicchio. Nell’elenco dei consiglieri figura anche Libera Armillotta, sostenuta da Vincenzo Totaro. I tantissimi voti di Totaro, in buona sostanza, sono andati in primis alla Rinaldi e in parte alla Armillotta, quest’ultima futura consorte di un fedelissimo di Totaro, dipendente ente Parco. Infine, il consigliere Michele Ferosi, cugino dei fratelli Rosa e dell’attuale sindaco, è anche cugino di secondo grado del neo assessore Giuseppe Totaro.

Dunque pare che ben poco sia cambiato rispetto a due anni fa, quando si arrivò alla decisione di sciogliere il consiglio comunale per infiltrazioni criminali. Sono cambiati i volti ma le opacità restano tante. Inoltre, questa volta la commistione oscura tra apparato burocratico e amministrazione è ancora più forte: il super assessore Michele Fusilli (deleghe a lavori pubblici e urbanistica), come accennato, è nipote del pregiudicato e capo settore del Comune di Monte Sant’Angelo, Domenico Rignanese. 

E nelle ultime ore – come se non bastasse – sta facendo discutere un post su Facebook dell’ex vicesindaco, Felice Scirpoli: “Il diritto al lavoro è di tutti, non solo degli amici – scrive -. La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto (art. 4 della Costituzione Italiana). È chiaro? La Carta fondamentale sostiene che il diritto al lavoro è di tutti i cittadini, non solo di quelli che ci stanno simpatici o dei nostri amici o dei nostri sostenitori, non dimentichiamolo! I cittadini vanno rispettati, tutti!” Infine gli hashtag: “#NessunaSvoltaaMonte” e “#SiamoAlleSolite”. Il riferimento sarebbe ad alcune assunzioni sospette in un’impresa appaltatrice di servizi pubblici.

Insomma, a Monte emergerebbero ancora pacchetti di voti delle famiglie mafiose, voti di scambio, parentele e frequentazioni con soggetti pregiudicati e/o appartenenti ai clan del Gargano. Urgerebbe un intervento estremo della Prefettura e delle autorità predisposte, prima che i tentacoli della mala possano allungarsi sulla macchina comunale. La città di Monte Sant’Angelo ha bisogno dello Stato. 

Mafia a Mattinata, il boss “Baffino” svanito nel nulla. Possibile fuga di notizie

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"Baffino" è scomparso nel nulla. Antonio Quitadamo, 41 anni, la "primula rossa" di Mattinata, il boss dei boss assieme a Francesco Scirpoli, luogotenente del clan Romito, ha fatto perdere le proprie tracce il 14 luglio scorso, poco prima di essere acciuffato dai carabinieri per una storia di estorsioni. Una possibile fuga di notizie dietro la sparizione dell'uomo? Tutto sembra possibile quando si parla di Antonio Quitadamo, attivamente ricercato dalle forze dell'ordine che su di lui hanno in ballo un'ordinanza di custodia cautelare. Quitadamo è stato denunciato da un tedesco con origini di Monte Sant'Angelo, Michele Matteo Mastromatteo, professione cuoco che tempo fa ha acquistato una casetta in una zona feudo dei "baffino". Stiamo parlando delle masserie su Monte Sacro, località Tagliata-Cutini dove negli anni, pian piano, i coloni della zona sono stati indotti dai Quitadamo ad abbandonare i terreni dove ormai pascolano solo i bestiami della famiglia malavitosa. Mastromatteo è stato vittima di richieste estorsive ma lui non si è intimorito, annunciando sul web che presto avrebbe mandato in galera Quitadamo ("ci sto pensando io per farlo arrestare"). Poi, infatti, ha denunciato tutto ai carabinieri, ormai intenti ad arrestare la primula rossa. E invece niente. Il 14 luglio scorso, Quitadamo si è dato alla macchia, favorito dall'impervio promontorio garganico, da sempre terreno ideale per i latitanti. "Baffino" sapeva che stavano arrivando i carabinieri? E chi avrebbe fatto la soffiata? Domande al momento senza risposta. 

Veduta di Mattinata

Quella zona, come detto, è terra dei Quitadamo. Si tratta di un'area spettrale, fatta di case abbandonate e recinzioni divelte e senza serratura. Il tutto alla mercé dei "baffino" che portano lì a pascolare gli animali. In quel tratto della "farfalla del Gargano" abita il boss, in una villa piena di telecamere. L'area è sorvegliata alla perfezione. Quasi un controllo militare.

Il nome di Antonio Quitadamo lo abbiamo già incrociato nell'inchiesta sull'ispettore vice dirigente del commissariato di Manfredonia, Bartolomeo D'Apolito, tuttora sotto processo. Baffino è il boss con cui - a detta dell’ispettore - qualcuno dell'amministrazione dell'ex sindaco Lucio Roberto Prencipe tenne un incontro nella masseria dello stesso Quitadamo. "Perché quando tu vai a sederti in una masseria e vai a concordare determinate cose…", questa una delle frasi registrate dall'attuale sindaco Michele Prencipe durante un incontro con D'Apolito, raccontato dalla nostra testata lo scorso 25 giugno
Intercettazioni scottanti che tirano in ballo anche il mondo della magistratura. L'Immediato - sulla questione - ha contattato i rappresentati locali dell'Associazione Nazionale Magistrati, la Prefettura di Foggia e anche il questore di Foggia, Piernicola Silvis. Nessuno ha inteso replicare. Non resta che aspettare l'insediamento di Mario Della Cioppa, nuovo questore di Foggia dal prossimo 1 agosto, il quale potrà spiegare come mai, ad oggi, nessun provvedimento in merito sia stato adottato circa le evidenti incompatibilità istituzionali e ambientali che da questa vicenda scaturiscono. 

Meno mattone, più tributi. La nuova vita dei “palazzinari” foggiani

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Da sinistra, Insalata e Trisciuoglio

Il Mise (ministero dello sviluppo economico) ha aggiudicato la gestione dei servizi di riscossione del Comune di Foggia (di Manfredonia e Canosa) alla società Adriatica Servizi srl dei costruttori Marco Insalata e Gianni Trisciuoglio (gli imprenditori del mattone si occupano anche dei servizi cimiteriali). Come confermato dal dirigente Carlo Dicesare, l'operatività del nuovo corso potrebbe arrivare già a metà settembre, dopo una fase di interregno con il commissario della Mazal Global Solution srl, Bruno Inzitari. La partita è particolarmente lauta, se si pensa che la raccolta vale circa 50 milioni di euro. Recentemente, Comune e Mazal avevano raggiunto un'intesa nella rimodulazione del contratto riguardante l’attività di accertamento e riscossione dei tributi locali. I nuovi gestori prenderanno tutto tranne l'Imu.

Tra i lavoratori, tuttavia, c'è preoccupazione per la procedura di licenziamento collettivo, propedeutica alla riassunzione di una parte (28) dei 56 dipendenti. Al momento, non si conoscono i meccanismi di "selezione" di chi avrà ancora un contratto a settembre. "Continuiamo ad avere ritardi importanti nei pagamenti - ci viene spiegato -, eppure i flussi di cassa ci sono. Stiamo seguendo la procedura, ma alcuni passaggi non sono per nulla chiari. Circa due mesi fa, ci hanno raggiunto negli uffici i referenti della Abaco Spa di Padova, dicendoci che avremmo lavorato con loro. Poi sono spariti. Successivamente, il commissario ha riproposto il bando con lo spezzatino per regioni. A questo punto si è presentata la cordata locale, di cui non conosciamo né l'esperienza - valutata attraverso l'iscrizione all'albo dei riscossori - né la solidità finanziaria".

I dettagli, in questo tipo di procedura, non possono essere ufficializzati fino alla firma del contratto. Perciò non può esserci precisione nella discussione sui dettagli dell'operazione. "L'azienda ha continuato ad indebitarsi - spiegano alcuni dipendenti a l'Immediato -, e ultimamente non si riesce nemmeno a garantire il rispetto dei tempi nei pagamenti: così si rischia di fare andare i verbali in prescrizione per via della durata della postalizzazione, che avviene direttamente da Milano. Da una ventina di giorni, è andato via anche il dirigente responsabile delle attività, l'avvocato Giampiero Polignano, determinando così un vulnus che dovrebbe produrre effetti negativi sulla stessa operatività aziendale". Anche con il servizio di vigilanza (la Protect) ci sarebbero problemi sul ritiro degli incassi. "Siamo con il fiato sospeso da troppo tempo - concludono - e non vorremmo rischiare di ritrovarci nelle stesse situazioni dopo la cessione della gestione del servizio".

Mafia a Foggia, Albanese “miracolato”. I Sinesi volevano uccidere anche lui

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In alto da sinistra e in senso orario, Albanese, Villani, Francesco Sinesi, Ragno, Cosimo Damiano Sinesi e Gaetano Piserchia

Scampato all'agguato nel bar H24 in via San Severo a Foggia. Anche Giuseppe Albanese, uomo del clan Moretti-Pellegrino-Lanza, era nel mirino dei Sinesi-Francavilla, questi ultimi decisi a vendicare il tentato omicidio del super boss Roberto Sinesi, detto "lo zio". Le carte dell'inchiesta sulla morte di Roberto Tizzano e sul ferimento di Roberto Bruno, entrambi pizzicati dai killer il 29 ottobre scorso nel bar H24, tirano in ballo anche un altro soggetto, quel Giuseppe Albanese oggi ai domiciliari a scontare due anni per porto di pistola. 

Pure lui, 37 anni, era nel locale stando ad alcune intercettazioni. "Si trovava nel bar ed era un probabile obiettivo dei sicari - scrive il gip Abbattista nelle 79 pagine dell'ordinanza -, scampò miracolosamente all'agguato diretto contro il suo clan". E ancora: "Acquisì diretta contezza sia della dinamica omicidiaria sia dei soggetti dai quali proveniva l'aggressione armata da vendicare".

Nei giorni successivi all'omicidio, Albanese e un altro soggetto vicino a Tizzano, provarono a rintracciare Cosimo Damiano Sinesi che però si chiuse in casa per evitare la vendetta nei suoi confronti. In un'intercettazione, Albanese riferì a un amico: "Me ne sono andato compare, me ne sono scappato come un.... (incomprensibile)". E in un'altra intercettazione gli investigatori ascoltarono le parole di un parente di Albanese: "Giuseppe se non si metteva dietro il bancone... Non l'hanno preso, a lui volevano. Ha detto che ha visto questa macchina che si sono fermati davanti al bar con tre persone. Dice che lui si è messo a correre e non è riuscito ad acchiappare gli altri. Hanno ucciso il bambino, diceva, l'hanno ucciso. Io mi sentivo un fatto, gli ho detto: "Giuseppe, non andare davanti al bar", gli ho detto "mi sento una brutta cosa oggi. Lo facevano morto a Giuseppe". In altra intercettazione altre persone rivelarono: "Se Albanese non se lo tirava nel bagno a quel ragazzo (riferito a un minorenne presente nel locale, secondo l'accusa) lo spallottolavano pure a lui. Là sono andati con l'intenzione di tutti e tre (Albanese, Tizzano e Bruno, ndr), chi ha fatto la chiamata sapeva che stavano tutti e tre nel bar".

Albanese, come detto, è elemento noto agli inquirenti. Coinvolto nell'operazione "Ripristino" nei confronti di alcuni esponenti del clan Moretti-Pellegrino-Lanza e ferito in un agguato il 10 giugno 2011, quando fu colpito dai proiettili mentre era sotto casa sua in via Rosati, nei pressi di Maria Grazia Barone. Riuscì a cavarsela anche in quella occasione. 

Mappa della mafia, la DIA: “A Foggia morte Sinesi avrebbe stravolto tutto”

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“La società foggiana e la mafia garganica impattano con inusitata violenza sulla provincia di Foggia, dove continuano a registrarsi attentati dinamitardi ed incendiari in danno di imprenditori ed esercizi commerciali”. Così scrive la Direzione Investigativa Antimafia nell’ultima relazione (secondo semestre 2016) sulla criminalità organizzata in Italia. Nel capitolo relativo alla nostra provincia, si analizzano i sodalizi malavitosi presenti nelle varie aree del Foggiano, dalla città capoluogo al Gargano, passando per l’Alto e il Basso Tavoliere.

Concentriamo oggi la nostra attenzione sulla città di Foggia che proprio nel semestre in questione ha visto acutizzarsi la guerra di mafia tra due clan storici. “Lo scenario criminale del capoluogo - si legge - continua ad essere segnato dalla faida tra la consorteria dei Sinesi-Francavilla e quella dei Moretti-Pellegrino-Lanza. È in questo contesto che si inscrive il tentato omicidio avvenuto in città il 6 settembre 2016, in danno del boss della famiglia Sinesi (Roberto Sinesi detto “lo zio”, ndr) rimasto ferito a bordo dell’auto condotta dalla figlia. L’agguato - che segna la fine dello stallo registrato nel corso dell’ennesima guerra di mafia consumatasi nel capoluogo tra settembre 2015 e gennaio 2016 – va letto non solo come l’ennesimo episodio di sangue della citata faida, ma anche come un’azione criminale che, se avesse avuto un epilogo infausto, avrebbe stravolto gli attuali assetti e gerarchie dell’intera Società Foggiana. Fatti di questo tipo, assieme alla detenzione carceraria di molti sodali, ai continui interventi preventivi e repressivi da parte della Magistratura e delle Forze di polizia, alle sovrapposizioni dei clan nella gestione degli affari illeciti sul territorio (dovute all’assenza di un organo condiviso tra le tre consorterie mafiose foggiane già federate nella Società), concorrono a mantenere questo stato di accesa conflittualità, che porta a frequenti riassetti di potere e alla nascita di alleanze trasversali particolarmente pericolose”.

Candelaro, l'agguato a Sinesi

E ancora: “Altri gravi episodi di sangue, sicuramente ascrivibili all’accennato scenario, sono il duplice agguato avvenuto il pomeriggio del 29 ottobre 2016, nel corso del quale è rimasto ucciso un giovane pregiudicato e ferito un altro (Roberto Tizzano e Roberto Bruno, ndr), entrambi legati al boss Vito Bruno Lanza, esponente di vertice del clan Moretti-Pellegrino-Lanza. A questi si aggiungono il ferimento, avvenuto il successivo 28 dicembre, di un altro pregiudicato, collegato al gruppo Sinesi-Francavilla. Un’importante risposta a questa escalation di violenza è stata data il successivo 31 dicembre, con l’esecuzione del fermo di indiziato di delitto nei confronti di un noto pregiudicato di San Marco in Lamis (Patrizio Villani, ndr), legato al clan Sinesi-Francavilla, in quanto ritenuto uno degli esecutori materiali dell’agguato mafioso del 29 ottobre”.

Bar H24, l'omicidio Tizzano

Stando alla relazione della Dia, “sul piano generale, la criminalità foggiana, oltre a prediligere il racket delle estorsioni con particolare attenzione al settore edile, continua ad essere attiva nelle rapine e nel settore degli stupefacenti, contesto in cui interagisce anche con altre realtà criminali della provincia (sanseverese, garganica e cerignolana). È quanto, da ultimo, si è rilevato nell’ambito dell’operazione “Reckon”, conclusa dall’Arma dei Carabinieri i primi giorni di ottobre, che ha permesso di smantellare un sodalizio composto da appartenenti al clan Moretti-Pellegrino-Lanza, dedito al traffico di sostanze stupefacenti e attivo anche fuori provincia, nelle aree del Basso ed Alto Tavoliere”.

Criminalità del Gargano, “scenario instabile”. Ma si consolida asse Manfredonia-Monte-Mattinata

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"Lo scenario nel territorio garganico rimane ancora molto instabile". A riferirlo gli uomini della Direzione Investigativa Antimafia nell'ultima relazione relativa al secondo semestre del 2016. "Le variabili che influenzano l’evoluzione dei fenomeni criminali dell’area sono, infatti, molteplici: la presenza di gruppi a forte organizzazione verticistica, basati essenzialmente su vincoli familiari e non legati tra loro gerarchicamente; l’ascesa delle giovani leve desiderose di colmare i vuoti determinati dalla detenzione di elementi di spicco della mafia garganica, in particolar modo appartenenti al clan dei Montanari; non ultima, la vicinanza geografica ad altre realtà mafiose, come quella foggiana e cerignolana".

A Vieste, per esempio - stando alla relazione -, dopo l’omicidio del boss Angelo "cintaridd" Notarangelo, per anni a capo del clan omonimo, i più gravi episodi criminali hanno visto protagonisti alcuni soggetti già appartenenti al clan, segnando di fatto un cambio al vertice della criminalità locale. Tale avvicendamento, tuttavia - si legge -, non sembra essersi perfezionato anche per le immediate ed efficaci azioni di contrasto delle istituzioni, che di fatto hanno accentuato il vuoto di potere creatosi con la morte di Notarangelo, determinando da un lato fratture interne alla criminalità locale e, dall’altro, l’ambizione di gruppi di altre aree. Sul fronte delle estorsioni si segnala l’incendio doloso avvenuto il 20 luglio 2016, presso il porto turistico di Vieste, di una motonave che assicura i collegamenti con le Isole Tremiti. Tale episodio segue al danneggiamento, del 13 luglio, di tre gommoni, anch’essi adibiti al trasporto di persone.

Per quanto attiene al mercato degli stupefacenti, la città di Vieste si conferma raccordo nevralgico per i comuni limitrofi di Vico del Gargano, Peschici e Rodi Garganico. Il controllo di tale attività rimane il più importante motivo di frizione per le diverse fazioni che si contendono le piazze di spaccio.

Nel triangolo di Monte Sant'Angelo-Manfredonia-Mattinata, le difficoltà del clan Libergolis, conseguenti alla detenzione dei suoi vertici, potrebbero aver rinvigorito i gruppi già organici al clan dei Montanari e ora guidati da figure di maggiore spessore criminale. Gli esiti dell’operazione Ariete, conclusa a fine ottobre dall’Arma dei Carabinieri, ha fatto luce su come l’assetto criminale del Gargano risenta e sia espressione anche della collaudata sinergia registratasi tra soggetti di Manfredonia, Monte Sant’Angelo e Mattinata.

In particolare, nella città di Monte Sant'Angelo - dove il T.A.R. della Regione Lazio, con la sentenza del 24 ottobre 2016, ha rigettato il ricorso in merito al provvedimento di scioglimento per infiltrazione mafiosa dell'amministrazione comunale - la presenza di soggetti di elevata caratura criminale potrebbe stare alla base dei contrasti verificatisi per il controllo del territorioIn uno scenario così complesso, le attività illecite più remunerative continuano ad essere il traffico di sostanze stupefacenti, le estorsioni (anche mediante l’imposizione di servizi) ed i reati di natura predatoria, in particolar modo le rapine ai tir ed ai portavalori.


Mafia del Tavoliere, Dia: “Situazione aggravata a San Severo. A Cerignola aumentano gli affiliati”

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L'ultimo fatto di sangue a San Severo, l'omicidio Lombardozzi

Cerignola e San Severo, due tra le realtà più a rischio della provincia di Foggia sul fronte criminalità. A confermarlo l'ultima relazione della Direzione Investigativa Antimafia, quella relativa al secondo semestre del 2016. “La criminalità cerignolana - si legge - si conferma, anche in questo semestre, tra le più dinamiche della Regione nel traffico di stupefacenti, grazie alla capacità di disporre di molteplici canali di approvvigionamento, sia nazionali che esteri”.

Nel periodo in esame si è registrato un forte interesse dei gruppi dell’area per il mercato degli stupefacenti, come dimostra il consistente numero di piantagioni di cannabis scoperte, in particolar modo nell’area del basso ed alto Tavoliere.

Lo scenario criminale di San Severo, a differenza del recente passato in cui era caratterizzato da una pluralità di gruppi autonomi coesistenti (Testa-Bredice, Russi, Palumbo, Salvatore ex Campanaro e Nardino), risente attualmente degli effetti del riassetto che ha investito la criminalità organizzata e che ne starebbe rideterminando gli equilibri interni.

Gli episodi di sangue avvenuti nel semestre a San Severo forniscono lo spaccato del contesto delinquenziale della città, denotando un aggravamento della situazione del territorio in esame. In prospettiva, le delicate e contingenti fasi che stanno attraversando le organizzazioni mafiose sanseveresi e foggiane potrebbero accentuarne le contrapposizioni interne.

Nel settore degli stupefacenti, la città di San Severo si conferma crocevia per l’approvvigionamento nell’area dell’alto Tavoliere. Allo stesso tempo, il rinvenimento di 50 chilogrammi di marijuana abbandonati sulla spiaggia di Lesina, fa ragionevolmente ritenere che le coste dell’alto Tavoliere continuino ad essere interessate da sbarchi di droga".

Assalto avvenuto in pieno centro a Cerignola nei pressi di una banca

"Altra criticità potrebbe derivare dall’ingerenza della criminalità sanseverese nei comuni di Torremaggiore, Poggio Imperiale, Apricena e Sannicandro Garganico. In tale area, infatti, si registra la presenza di gruppi legati alla malavita di San Severo, come i Di Summa, i Ferrelli e i Russi, attivi nel racket delle estorsioni e negli stupefacenti (solo qualche settimana fa sono stati uccisi due soggetti vicini ai Ferrelli, ndr). Da segnalare come proprio nei confronti di un pregiudicato ritenuto contiguo all’organizzazione criminale dei Russi, la D.I.A. di Bari abbia eseguito, nel mese di ottobre 2016, una confisca immobiliare". Secondo la Dia, "il frastagliato quadro macro-criminale dell’area favorisce, peraltro, una criminalità predatoria, anche di matrice straniera, sempre più pericolosa e attiva.

Nel territorio di Lucera, la disgregazione dei clan storici, dovuta agli esiti processuali delle inchieste Svevia e Tornado, ha dato vita, nel tempo, a piccoli gruppi, non meglio strutturati e composti in gran misura da giovanissimi, dediti alla commissione di reati predatori ed allo spaccio di sostanze stupefacenti".

E torniamo al basso Tavoliere dove la realtà criminale più strutturata e solida si conferma quella di Cerignola, i cui punti di forza vanno ricercati nel radicamento sul territorio, nella capacità di diversificare le attività illecite da cui attingere risorse finanziarie e dal consistente numero di affiliati.

Tali fattori appaiono strettamente correlati alla presenza radicata nel tempo di due organizzazioni mafiose, i Di Tommaso e i Piarulli-FerraroLa perdurante non belligeranza dei citati gruppi e l’operare sotto traccia "ha indubbiamente favorito la criminalità locale nella strategia di ricercare insospettabili prestanome per schermare e riciclare i proventi illeciti".

È con questa consapevolezza che, anche sul territorio in esame, è stata intensificata l’attività di contrasto patrimoniale della Dia che, nel mese di ottobre, proprio a Cerignola, ha eseguito la confisca di beni immobili, per un valore complessivo di circa 130 mila euro, nella disponibilità di un elemento di spicco del menzionato clan Piarulli-Ferraro. Lo stesso era stato già condannato per il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso finalizzata, tra l’altro, al traffico internazionale di stupefacenti, in quanto inserito in un sodalizio attivo tra Cerignola e le province di Foggia, Barletta, Andria e Trani.

Non a caso, nel settore degli stupefacenti, la criminalità cerignolana si conferma tra le più dinamiche della Regione, anche grazie alla capacità di disporre di molteplici canali di approvvigionamento, sia nazionali che esteri. Non appaiono, inoltre, trascurabili le rapine agli autoarticolati e gli assalti ai bancomat e portavalori, commessi anche fuori Regione e spesso attuati con tecniche militari.

"Un ulteriore ambito di interesse della locale criminalità - si evidenzia nella relazione - è quello degli illeciti ambientali. Anche su questo fronte, l’azione di contrasto della Dia di Bari è stata particolarmente incisiva, tanto da arrivare, nel mese di ottobre, al sequestro del patrimonio, per un valore di 5,3 milioni di euro, nei confronti di un soggetto resosi responsabile, tra l’altro, di reati attinenti allo smaltimento illecito di rifiuti e già condannato per associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati in materia ambientale. Il provvedimento è stato integrato, nel mese di dicembre, con l’ulteriore sequestro di cinque mezzi agricoli, del valore complessivo di oltre 200 mila euro".

Guerra di mafia a Foggia, la sete di vendetta di Sinesi jr. “Mo’ devono stare attenti coi figli”

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Luogo dell'agguato a Sinesi

La voglia di vendetta di Francesco Sinesi nelle carte dell’inchiesta sull’omicidio di Roberto Tizzano. “Ma loro tengono i figli, mo’ si devono stare attenti”. Il giovane boss pronunciò queste parole il giorno dopo l’agguato al padre Roberto, capomafia della Società Foggiana, vivo per miracolo dopo la sparatoria a Candelaro durante la quale rimase ferito anche il nipotino. 

Proprio in risposta a quel fatto di cronaca, Francesco Sinesi avrebbe organizzato - stando alla DDA - la spedizione punitiva del 29 ottobre 2016 al bar H24 di via San Severo quando rimase ucciso Roberto Tizzano, ferito Roberto Bruno e illeso Giuseppe Albanese, per gli investigatori anche quest’ultimo obiettivo dei killerTutti soggetti vicini ai Moretti-Pellegrino-Lanza (Bruno è nipote diretto del boss, Vito Lanza detto u’ lepre), in conflitto coi Sinesi già da fine 2015, quando riesplose la guerra di mafia a Foggia.

In alto da sinistra e in senso orario, Albanese, Villani, Francesco Sinesi, Ragno, Cosimo Damiano Sinesi e Gaetano Piserchia

“Francesco Sinesi - scrive il gip Giovanni Abbattista - attribuiva la responsabilità di quanto successo al padre Roberto, agli esponenti del clan avverso, nei cui confronti meditava propositi vendicativi, considerando anche l’eventualità di coinvolgere minori com’era accaduto al malcapitato nipotino”.

Emblematica l’intercettazione del 7 settembre 2016, il giorno successivo all’agguato a Roberto Sinesi. “Eh ma loro tengono i figli - le parole del figlio del capomafia -, mo’ si devono stare attenti pure loro con i figli che tengono se non ce li… (incomprensibile). Mo’ non devono uscire più, stessero attenti, questa ormai è una cosa che non finisce qua, perché qua chiunque sta in mezzo alla strada dice questi hanno fatto a loro mi fanno pure a me”.

“Reazione in stile Isis”, clan foggiani pronti a uccidere i figli dei boss

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Tuo cognato va in giro a dire che si devono andare a prendere i miei figli. Digli che gli faccio vedere io come si fa l’Isis, diglielo”. La guerra tra Sinesi-Francavilla e Moretti-Pellegrino-Lanza emerge ancora di più in un’intercettazione ambientale pubblicata nell’ordinanza relativa agli arresti per l’omicidio di Roberto Tizzano e il ferimento di Roberto Bruno nel bar H24 di via San Severo a Foggia. Rilevante il colloquio in carcere dell’11 novembre 2016, due settimane dopo quell’agguato, tra un esponente dei Moretti e una parente dei Francavilla. 

L’uomo era detenuto in carcere ed era a colloquio con la moglie. La parente dei Francavilla era lì con altra persona reclusa. Il detenuto del clan Moretti si incrociò con la donna imparentata coi Francavilla e ne scaturì un battibecco.

“In occasione di quel colloquio – scrive il gip, Giovanni Abbattista – la donna espressamente riferiva di aver appreso che un cognato del detenuto avrebbe manifestato la volontà, dopo la sparatoria nel bar, di attentare alla vita dei figli della donna, addirittura colpendoli a casa loro e presso luoghi di ritrovo. In quella circostanza la donna minacciò il detenuto di una possibile reazione in stile Isis, da parte di suo marito. A fronte delle perplessità manifestate dal detenuto, la moglie di quest’ultimo, confermava di aver ascoltato personalmente affermazioni dello stesso tenore da parte del cognato, il che determinò lo sconcerto del detenuto con riferimento alla situazione evidentemente sfuggita di mano”.

Donna: “Mi devi fare una cortesia, devi dire a chi millanta con la bocca che non rompessero il cazzo perché stanno esagerando”.

Detenuto: “Chi è stato?”

Donna:(incomprensibile) e tuo cognato vanno in giro a dire che si devono andare a prendere i miei figli nella casa di Roberto”.

Detenuto: “No”

Donna: “Gli devi dire che non hanno capito un cazzo. Poi gli faccio vedere io come si fa l’Isis, diglielo”.

Detenuto: “Ma sei sicura che l’ha detto lui?”

Donna: “Non si permettesse, l’ha detto, lui l’ha detto”.

Detenuto: “Mah”.

Donna: “Trova le persone per strada e dice: ‘diglielo che i figli me li vado a prendere fino in discoteca’. Vieni a prendere me, si venisse a prendere me”. Interviene nel colloquio la moglie del detenuto che al marito conferma: “Me l’ha detto pure a me”.

Detenuto: “Possibile questo fatto”.

Donna: “Non si permettesse minimamente una cosa del genere. Non si permettesse minimamente perché se arriva alle orecchie di mio marito quello poi si imbestialisce”.

Detenuto: “Ce lo dico io, me la vedo io”.

Donna: “Quindi facesse l’uomo. Di merda ma lo facesse”.

Detenuto: “Me la vedo io, mannaggia”. 

La parente dei Francavilla si allontana e il colloquio continua tra il detenuto e la moglie.

Detenuto: “L’ha detto questo fatto?”

Moglie: “Amore, quello l’ha detto e mi ha lasciato a bocca aperta”.

Detenuto: “Che c’entrano i bambini”.

Moglie: “Hai capito. Dice quella: ‘I figli come li abbiamo noi, ce li avete anche voi, hai capito?’”

Detenuto: “Ora diglielo che te l’ho detto io. Ma quelle sono solo chiacchiere, ma non lo fanno”.

La Fiat 500L crivellata di colpi nel giorno dell’agguato a Roberto Sinesi

Per il gip questa intercettazione “rimarca il clima di tensione esistente a Foggia tra gli esponenti dei clan mafiosi contrapposti e l’animus vendicativo che ispirava i relativi sentimenti. Essendo stato ferito per ultimo a settembre 2016 Roberto Sinesi, “toccava” ai membri del suo clan – secondo la distorta logica animante i soggetti in esame – attivare la vendetta contro gli uomini del clan Moretti-Pellegrino-Lanza, come dimostra la vicinanza di sangue delle due vittime dell’agguato del 29 ottobre ad esponenti di quest’ultimo clan”.

Alla fine l’hanno ammazzato, il ruolo di Romito nella faida che da anni insanguina il Gargano

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Omicidio dopo omicidio, con modalità ogni volta più cruente, la provincia di Foggia è balzata prepotentemente sulle prime pagine di tutti i giornali nazionali. Stavolta la mafia locale ha mostrato più di altre volte la propria brutalità, uccidendo, senza alcuna pietà, due innocenti agricoltori di San Marco in Lamis, casualmente presenti al momento dell’agguato ai danni del boss, Mario Luciano Romito e di suo cognato, Matteo De Palma.

Mario Luciano Romito

Romito, 50 anni, era un “pezzo da novanta” nelle logiche malavitose del Gargano. Uno dei personaggi più conosciuti nella storica faida. L’uomo, da poco uscito dal carcere di Frosinone, dove ci era finito nel maggio 2014 per una vecchia rapina (LEGGI), era ritenuto, all’epoca della guerra di mafia, il referente del sodalizio criminoso. A seguito del riacutizzarsi dell’odio tra i clan, finì più volte nel mirino dei killer, scampando sempre alla morte. Un “miracolato”, insomma, almeno fino a stamattina.

Il 18 settembre 2009, ad esempio, Romito fu vittima di un attentato dinamitardo mentre era in compagnia del fratello Ivan. Un ordigno rudimentale fu posto all’interno della ruota anteriore e della carrozzeria dell’Audi A4 dei fratelli. La bomba, costruita con della polvere pirica ed un congegno meccanico esplose mentre Mario Luciano si stava recando nella caserma dei carabinieri di Manfredonia per l’obbligo di firma. L’esplosione avvenne all’altezza dell’incrocio semaforico vicino all’ex Macello in via Giuseppe di Vittorio. Per i fratelli solo ferite.

L’agguato nel quale trovò la morte Michele Romito

Il 27 giugno 2010 invece, sempre a Manfredonia, poco dopo le venti e trenta, all’altezza di viale Padre Pio (secondo piano di Zona), lungo la strada che conduce verso la Statale 89 per Foggia e, a nord, verso San Giovanni Rotondo, ignoti, a bordo di un’auto, uccisero con colpi d’arma da fuoco il 23enne Michele Romito ferendo l’allora 43enne Mario Luciano, mentre i due erano a bordo di una Y10.

Ma sono tanti gli episodi di cronaca che vedono la mafia garganica protagonista negli ultimi anni. E spesso spuntava il nome del boss ammazzato oggi. Dopo la frattura tra le famiglie Romito e Libergolis, la “guerra” si aprì a suon di omicidi. Il 21 aprile 2009 trovarono la morte Franco Romito e Giuseppe Trotta, il 23 maggio dello stesso anno invece, fu la volta di Andrea Barbarino. Il 26 ottobre toccò a Francesco Libergolis, assassinato con un colpo di lupara alla schiena e 6 colpi di rivoltella alla testa per vendicare Franco Ro­mito, allevatore assassina­to a Siponto perché considerato un traditore. Un botta e risposta clamoroso a distanza di pochi mesi al quale seguirono altri episodi di sangue. Come quello del 13 gennaio 2010 culminato con l’omicidio di Michele Alfieri. Mentre il 26 giugno, sempre del 2010, venne eliminato (come raccontato in precedenza) Michele Romito mentre Mario Luciano riuscì a farla franca. L’escalation criminosa proseguì il 30 giugno 2010 con l’omicidio di Leonardo Clemente.

L’arresto di Peppe u’ Montanar

L’arresto di Giuseppe Pacilli detto “Peppe u’ montanar”

Momento clou della storia recente della faida garganica è datato 13 maggio 2011, quando beccarono Giuseppe Pacilli, alias “Peppe u’ montanar”, uno dei trenta latitanti più pericolosi d’Italia. Pacilli assunse il comando del clan Libergolis, gestendo soprattutto il settore delle estorsioni che incide pesantemente sul tessuto economico dell’area garganica. “Pepp u’ montanar” fu arrestato nel 2004 nell’ambito della famosa operazione “Iscaro Saburo”, per i reati di mafia, estorsioni ed armi. Il 23 giugno 2004 nel blitz, oltre a Pacilli, vennero arrestate altre cento persone presunte affiliate ai clan della faida. Dopo il maxi processo, a luglio 2008, arrivò la sentenza, clamorosa, della Corte d’Appello di Bari che gli concesse gli arresti domiciliari. Pacilli ne approfittò per darsi alla macchia. Quel processo, in ogni caso, accertò la presenza, a partire dalla fine degli anni Settanta, di due clan contrapposti: i Libergolis-Romito (dal 2009 non più alleati, ma nemici) e gli Alfieri-Primosa. La cattura di Pacilli che si nascondeva nei boschi garganici, diede una mazzata notevole al “clan dei Montanari”.

La Dia: “Libergolis in difficoltà”

Nella recente relazione della Direzione Italiana Antimafia (secondo semestre 2016), si parla apertamente del triangolo Monte Sant’Angelo-Manfredonia-Mattinata ma anche delle difficoltà del clan Libergolis, conseguenti alla detenzione dei suoi vertici. Difficoltà che, secondo i magistrati, potrebbero aver rinvigorito i gruppi già organici al clan dei Montanari e ora guidati da figure di maggiore spessore criminale. L’operazione Ariete, conclusa a fine ottobre dall’Arma dei Carabinieri – si legge nella relazione -, fece luce su come l’assetto criminale del Gargano risenta e sia espressione anche della collaudata sinergia registratasi tra soggetti di Manfredonia, Monte Sant’Angelo e Mattinata. Il riferimento è, in particolare, ai clan Romito e Quitadamo colpiti proprio da quel blitz.

Ipotesi investigative 

Ma allora, chi potrebbe aver voluto la morte di Romito? Il 21 marzo di quest’anno, a Monte Sant’Angelo, fu ucciso Giuseppe Silvestri, un tempo vicino a Peppe u’ montanar. Che sia una vendetta per quell’omicidio? O l’agguato di oggi è da collegare a nuove lotte per il controllo del territorio? Più difficile pensare a legami con il duplice omicidio di Apricena di fine giugno, ma solo perché i Romito non si sarebbero mai incrociati coi clan dell’Alto Tavoliere.

Di certo, con l’uccisione di alcuni storici boss e la detenzione di altri, gli assetti criminali del promontorio si stanno via via modificando. Giovani leve provano a farsi largo rimpiazzando i vecchi capi. Sta già succedendo a Vieste e forse, adesso, anche sull’asse Manfredonia-Monte-Mattinata. 

Uccisione boss Romito, occhi puntati sui Libergolis. Le piste: vendetta e droga

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Mario Luciano Romito

Una storica faida, due contadini innocenti e persino una turista francese che avrebbe visto l’auto con dentro gli assassini. Ha tutti i contorni del giallo, il quadruplice omicidio del 9 agosto scorso a San Marco in Lamis. Un rompicapo per procura di Foggia, DDA e forze dell’ordine. Innanzitutto cosa ci faceva Mario Luciano Romito da Manfredonia in quel territorio. E chi lo avrebbe venduto ai killer? Lo scenario più accreditato porta alla guerra tra i clan Libergolis e Romito, in conflitto dal 2009. I Libergolis non avrebbero mai perdonato il presunto ruolo di confidenti dei carabinieri ricoperto dai Romito. Soffiate che portarono a pesanti condanne nel processo alla mafia del Gargano. Dunque il boss andava eliminato. Dopo alcuni tentativi falliti in passato, stavolta chi voleva ucciderlo è riuscito nell’intento. I mandanti dell’omicidio hanno atteso la scarcerazione, giunta appena 6 giorni prima dell’agguato, poi lo hanno colpito a morte dilaniandolo sul capo come già accaduto per il fratello Franco nel 2009. Mario Luciano Romito era tornato libero grazie alla decisione del tribunale del Riesame che aveva ritenuto insufficienti le prove a suo carico per la rapina a un portavalori.

Insomma, una vendetta dietro la strage del 9 agosto? Può darsi. Pare che Romito e il cognato Matteo De Palma, 44enne incensurato e autista del boss in quanto a quest’ultimo, sorvegliato speciale, era stata revocata la patente, si stessero recando nell’Alto Tavoliere per delle commissioni, si vocifera per una compravendita auto. Avevano in agenda anche un appuntamento nel luogo del massacro? Nel frattempo ci sarebbe già qualche sospettato. Un uomo dei Libergolis, ad esempio, risulta desaparecido dal giorno della strage. Incessanti le perquisizioni dei carabinieri, con l’ausilio dei “Cacciatori di Calabria”, giunti per dare man forte alle indagini come annunciato dal ministro Minniti. Occhio, infine, ai tabulati telefonici per risalire a eventuali conversazioni intercorse dal boss.

La pista della droga

Il ritorno in libertà del capomafia, potrebbe aver indotto qualcuno ad eliminarlo per spazzare via un pericoloso concorrente nel traffico di droga tra Gargano e Albania. Qui si incastra il ruolo di Vieste e dei clan dell’area nord del promontorio, intenti a dominare le coste per gestire il business degli stupefacenti in un regime di monopolio. Negli anni Novanta erano proprio i Romito a controllare i traffici da costa a costa, soprattutto per quanto riguardava il contrabbando delle sigarette. 

Il possibile scambio di persone

I fratelli Luciani

Ha scioccato l’Italia intera la morte di Luigi e Aurelio Luciani, 47 e 43 anni, fratelli contadini di San Marco in Lamis. I due – titolari di un’azienda agricola poco distante dalla zona dell’agguato – sarebbero stati uccisi perchè testimoni involontari della carneficina. Ma potrebbero anche essere stati erroneamente scambiati per guardaspalle di Romito o per le persone con cui il boss aveva l’appun­tamento. Forse a “tradire” i killer, il Fiorino pick up bianco, simile ad un allevatore della zona noto alle forze dell’ordine.

La turista francese

ANSA/STRINGER

Quattro uomini armati e incappucciati dentro una Ford Kuga. Questa la scena apparsa agli occhi di una turista francese pochi attimi prima dell’agguato mafioso. La donna, terrorizzata, ha riferito quanto visto ad alcuni vigili urbani incrociati in strada, in seguito si è recata dai carabinieri per la denuncia. Ora la sua versione è agli atti dell’inchiesta. La Kuga, invece, risultata rubata il giorno prima a Trani, è stata ritrovata bruciata a pochi chilometri dal luogo della strage. Era effettivamente l’auto utilizzata dai sicari.

Usura a Foggia, le minacce del fruttivendolo: “Ti uccido e do fuoco a mezza città”

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Si parla di almeno altri due imprenditori finiti nel mirino di Fabio Caggiano, il fruttivendolo del mercato Rosati di Foggia arrestato per usura dalla Guardia di Finanza nell’ambito dell’operazione “Sabbie”. L’uomo, 37 anni, stando alle carte dell’inchiesta, avrebbe minacciato di morte un giovane imprenditore della città, costretto a cedere un pub (valutato 19mila euro) del centro foggiano pur di soddisfare le pressanti richieste di Caggiano. Anni di inferno per la vittima, finita in una spirale senza uscita dopo aver ottenuto un prestito di 2mila euro dal suo aguzzino. “Ti taglio la testa, ti uccido – le minacce -. Se entro venerdì non mi porti i soldi, do fuoco a mezza città”. E ancora: “Non voglio più nulla, voglio solo abbracciarti così forte da toglierti il respiro, giuro”.

Un calvario cominciato nel 2013, quando la vittima chiese denaro a Caggiano per fronteggiare le spese di gestione del pub. Due anni dopo, grazie a un finanziamento regionale, l’imprenditore versò 9500 euro al 37enne per far fronte al debito che nel frattempo era salito a 13mila euro. In seguito pattuì un pagamento mensile di rate da 500 euro senza riuscire a saldare il conto, elevatosi ulteriormente fino a 19mila euro. Fu così che arrivò a cedere il pub al suo aguzzino.

Poi l’imprenditore avrebbe ottenuto 5mila euro da Caggiano per aprire un’altra attività con l’accordo di restituire circa 2500 euro di interessi e assumere il fruttivendolo come dipendente.

Ma la vittima non riuscì ad onorare il debito iniziando a subire minacce di morte dall’arrestato. Infine, l’aggressione e il pestaggio a fine luglio scorso a Parco San Felice. Intanto l’imprenditore aveva già denunciato il fruttivendolo. Infatti la Guardia di Finanza aveva disposto le intercettazioni, scaturite nel blitz di qualche giorno fa durante un incontro tra Caggiano e la vittima, nel nuovo locale dell’imprenditore.

La difesa di Caggiano

L’arrestato si è difeso davanti al gip del tribunale di Foggia, Elena Carusillo: “Non sono uno strozzino. Ho prestato soldi a un amico per aiutarlo e senza chiedere tassi d’interesse usurari”. Le minacce di morte? “Dovute al nervosismo del momento per la mancata restituzione del denaro”. Il gip, però, poco convinto dalla versione del fruttivendolo, ha confermato la custodia cautelare in carcere.

Altre vittime?

“Stiamo procedendo all’identificazione di un altro imprenditore usurato”, avevano detto i finanzieri in conferenza stampa. Ed infatti risulterebbe che la vittima avrebbe rivelato i nomi di altri imprenditori usurati (almeno due) da Caggiano in sede di denuncia. Le indagini continuano.

Il nuovo business criminale di Cerignola: le targhe auto. “50 euro e te la riporto”

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La nuova frontiera dell’estorsione, a Cerignola, è il cavallo di ritorno sulle targhe. “Ti hanno rubato la targa, se mi dai 50 euro te la riporto io”. I malviventi, generalmente giovani, suonano al citofono e informano le vittime proponendosi come intermediari; molto spesso la trattativa è diretta, perché a rubare le targhe dell’automobile sono proprio coloro i quali si propongono di trovare i ladri. Cinquanta euro è il prezzo standard, ma non è detto che il compenso non possa scendere anche a venti o trenta euro. Cerignola battezza un nuovo business criminale che sembra non avere eguali in Italia: il cavallo di ritorno delle targhe automobilistiche. È da circa un anno che piccole batterie, con ogni probabilità costituite da under 25, fanno razzia di placche metalliche alfanumeriche e provano ad alzare modesti gruzzoletti attraverso estorsioni mascherate ricalcando quanto già succede con i furti d’auto.

Il vicequestore, Loreta Colasuonno

Le somme guadagnate servono un po’ per le spese di tutti i giorni, la maggior parte invece per i vizi e per rifornirsi di droga. Eppure succede puntualmente, ad ogni ora del giorno, perché la richiesta effettuata è assai risicata rispetto a quanto si dovrà impiegare per denunciare lo smarrimento e provvedere, per il tramite della motorizzazione, alla sostituzione della targa. Per questo al momento presso il commissariato di polizia di Cerignola le denunce scarseggiano: “Ne abbiamo preso uno un anno fa, era un ragazzo che si occupava di furti di targhe. Se il fenomeno è così diffuso, lo stesso però non si può dire per le denunce. Il mio appello è quello di allertare sempre e comunque le forze dell’ordine e non rendersi complici alimentando questo sistema. Se tutti pagano, anche piccole somme, allora questi ladri saranno sempre agevolati. E non può passare l’idea che “conviene”, perché a questo punto potrebbe convenire tutto, ma vivremmo solo in uno stato di illegalità diffusa”, commenta il vicequestore aggiunto Loreta Colasuonno. La richiesta di denaro per la placca metallica è tarata su un semplice ragionamento: denunciare il furto alle autorità competenti e recarsi in un centro di pratiche automobilistiche che attraverso la motorizzazione si occuperà dell’emissione della nuova targa e del suo duplicato, potrebbe costare molto in termini di tempo e di denaro. Da un punto di vista economico, difatti, l’importo da sostenere si aggira tra 150 e 200 euro. Per certi versi, in un controverso meccanismo psicologico, cedere all’estorsione può risultare “conveniente”.

Il cavallo di ritorno delle targhe, a Cerignola, è un fenomeno di recente nascita perché – informano dal commissariato di polizia – è da circa un anno che piccole batterie di ragazzi appena maggiorenni girovagano nelle vie della città in cerca delle loro vittime. All’inizio si è trattato di casi isolati, per lo più tossicodipendenti bisognosi di reperire denaro; oggi, invece, il business sembra avere una portata più diffusa, assumendo i connotati dell’anticamera del cavallo di ritorno di automobili. È difficile – o quasi impossibile – tracciare una stima dei furti registrati fino ad oggi, proprio perché nella quasi totalità dei casi le forze dell’ordine rimangono all’oscuro del reato. Per quanto riguarda il furto di targhe e la relativa estorsione, l’omessa denuncia è quasi automatica. Per i malviventi il rischio, dunque, è minimo; il profitto, invece, no.


Faragola, un sito millenario abbandonato a se stesso. Il sindaco: “Mai visto un operaio”

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Un sito archeologico di rilievo nazionale senza alcun tipo di sorveglianza, vigilanza o telecamere. Eppure, i lavori per il “recupero e la valorizzazione dell’area archeologica” sarebbero dovuti partire a novembre 2016 per concludersi a marzo 2018. La Regione Puglia con il Mibact, infatti, aveva investito 1,6 milioni di euro, appaltando l’opera all’Ati Nei Restauro e Costruzioni srl di Genzano di Lucania (Potenza) con l’Hgv Advertising srlu. Un progetto bloccatosi negli ultimi mesi per via del “caldo”, secondo le informazioni riferiteci dal ministero. I lavori sarebbero ripartiti “in questi giorni”. Per i Vigili del fuoco e per le forze dell’ordine, dopo il sopralluogo di questa mattina, la natura dell’incendio sarebbe “accidentale”, provocata dalle sterpaglie circostanti alla preziosa villa romana. Ma i dubbi rimangono molti, a cominciare dalla combustione troppo veloce della struttura, che sulla carta doveva essere “ignifuga”, ovvero molto resistente alle fiamme (solo dopo 8 ore il rogo dovrebbe cominciare ad ardere i materiali). Un lasso di tempo abbondante per scongiurare i danni irreparabili registrati tra i reperti.

Il direttore dei lavori, Francesco Longobardi, del segretariato generale del ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo per la Puglia, proprio in questi giorni avrebbe dovuto dare l’okay alla ripresa delle attività. L’ex rettore dell’Unifg, Giuliano Volpe, ora presidente del Consiglio Superiore per i Beni culturali e paesaggistici, ci fa sapere che “in tutta la gestione di questo cantiere non avevo alcun ruolo, nemmeno come consulente scientifico”. Dice di essere allibito dall’assenza di qualsivoglia sistema di sicurezza. Eppure, negli ultimi tempi da queste parti sarebbero stati visti pullman di turisti. Anche il sindaco di Ascoli Satriano, Vincenzo Sarcone, si tira fuori da ogni responsabilità e si prepara a raggiungere, domani pomeriggio, il prefetto di Foggia Massimo Mariani.

Vincenzo Sarcone

“Ci sono dei fatti gravissimi in questa vicenda – commenta a l’Immediato -, in quel cantiere che non era ancora un parco archeologico, non c’era assolutamente niente, né sorveglianza né recinzioni. Per di più, ho fatto più sopralluoghi dalla consegna dei lavori e non ho mai incontrato operai al lavoro. L’unica opera visibile, che ho visto negli ultimi giorni al rientro dalle vacanze, sono dei piccoli muretti: davvero poco visto l’importo dell’appalto. Eppure l’importo dell’appalto poteva consentire ad un costruttore qualsiasi di realizzare tre palazzi. Ma qui non c’erano nemmeno i bagni. Ho dovuto vietare tutte le visite guidate che erano state organizzate senza che sapessi nulla. L’informazione l’ho avuta da alcune persone che postavano foto su internet lamentandosi dell’assenza di servizi igienici. Il Comune non poteva far nulla, visto che non era committente delle opere”.

Poi dice di avere paura in un territorio che non ha nessun tipo di sorveglianza. “Se fosse confermata la natura dolosa – commenta -, sarebbe preoccupante anche per le altre ricchezze della nostra città. Abbiamo un museo con opere uniche, come i Grifoni. Bisogna fare emergere tutte le eventuali responsabilità, anche perché io a questo punto ho paura. Siamo rimasti senza comandante dei carabinieri da giugno e negli ultimi tempi ho subito pure minacce per via dei provvedimenti che ho adottato in seguito alle direttive per gli eventi pubblici. Sarò a disposizione per far luce sulla vicenda – conclude -, a tutela della mia persona e della mia comunità”.

L’ex moglie di Francavilla testimonia contro la mafia foggiana. Ecco l’interrogatorio

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Minacce, estorsioni e assunzioni imposte. Si va delineando il quadro del processo Rodolfo che vede alla sbarra i maggiori clan di Foggia: Sinesi-Francavilla e Moretti-Pellegrino-Lanza. Le due batterie criminali si sarebbero contesi i servigi dei fratelli Curcelli, imprenditori locali operanti nel settore agricolo.

Per “Rodolfo” sta avendo un ruolo di primo piano la testimone di giustizia, Sabrina Campaniello, ex moglie di Emiliano Francavilla, uno dei boss della Società. La donna è stata interrogata stamattina in corte d’assise a Foggia, in videoconferenza, collegata da una località protetta. Presenti in aula anche Vito Bruno Lanza (ai domiciliari), Leonarda detta Dina Francavilla (ai domiciliari per altra causa – il racket a Proshop) e Leonardo Lanza (obbligo di dimora).

La Campaniello (che nel video in alto parla dei rapporti tra l’ex marito e Franco Curcelli, ndr) ha confermato l’assunzione imposta di Dina Francavilla, sorella di Emiliano e Antonello Francavilla e moglie di Mario Lanza. “Ha lavorato nell’azienda di Curcelli per circa due o tre mesi – ha detto la testimone di giustizia -. Poi ha smesso continuando comunque a percepire lo stipendio”. Durante un interrogatorio a Curcelli, l’imprenditore dichiarò di aver corrisposto circa 1100 euro mensili (più assegni familiari e altre indennità) alla Francavilla per complessivi 36mila euro nell’arco di tre anni.

Nello schermo, la Campaniello di spalle durante la video conferenza

“Anch’io avrei voluto lavorare ma il mio ex marito non me lo ha mai permesso. Emiliano – ha continuato la Campaniello – percepiva 1000 euro al mese da Franco Curcelli, soldi che comunque tornavano utili a me e alla mia famiglia”.

Il legale dei Francavilla, Ettore Censano ha spinto molto sul caso dell’assunzione di Dina Francavilla. “Come ha fatto a sapere che sarebbe stata assunta da Curcelli?”, la domanda dell’avvocato. La Campaniello ha risposto così: “Ne ho sentito parlare nella mia vecchia casa di via Castelluccio dove vivevo con Emiliano. Ero presente mentre il mio ex marito ne discuteva in veranda con lo stesso Franco Curcelli e con Mario Lanza”.

Ascoltato questa mattina anche il capitano della Guardia di Finanza, Giuseppe Savoia, nel “Gico” di Bari durante le indagini: “Da questa vicenda – ha detto il finanziere – è emerso che i Curcelli erano sotto pressione di due batterie criminali foggiane. La nostra attività captatoria (intercettazioni ambientali in particolar modo, ndr) ha fatto emergere che i due imprenditori soggiacevano alle richieste di denaro mensili dei boss o erano costretti ad assumere determinate persone. Le retribuzioni – ha aggiunto – avvenivano senza che ci fosse una contro prestazione”. L’udienza odierna si è chiusa con le parole del capitano della GdF. Infatti, dato che la trascrizione delle intercettazioni non è ancora stata depositata, il procedimento è stato rinviato al prossimo 20 novembre. Sempre nel tribunale di Foggia.

“Camping Gran Ghetto”, così è nato un altro villaggio abusivo a Rignano

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Il benvenuti al “Camping Gran Ghetto” lo da una montagna di rifiuti abbandonati ai bordi dell’entrata e, come un’insegna identifica una struttura turistica, rende bene l’idea di quel che viene offerto al suo interno.
Subito dopo aver varcato il punto d’ingresso si incontrano delle case in tufo risalenti al periodo della bonifica, case attorno alle quali sono sorte delle piccole baraccopoli (poche unità per casa colonica) a brevissima distanza da terreni coltivati a uliveto. Vicino a una casa in tufo decine di recipienti per l’acqua fanno sorgere il sospetto che quello sia un punto di rifornimento del prezioso bene da portare (a pagamento?) anche a chi non vive nel “campeggio”, a chi vive nelle campagne circostanti in situazioni forse più agevole ma non raggiunte dal servizio garantito da Regione Puglia, per motivi umanitari, tramite AqP.
Alla fine del viale d’ingresso, di fronte ai terreni ancora sotto sequestro e dove sorgeva il ghetto sgomberato pochi mesi fa, un piazzale che separa l’area adibita a tendopoli dall’area di sosta delle roulotte. Un piazzale ben battuto che si può prestare a ospitare una “discoteca all’aperto” o altri “eventi mondani” che i gestori della struttura organizzano.
Le tende, una cinquantina o poco più, sono piccole e basse, spesso ricoperte da plastica per migliorarne l’impermeabilità e a fatica possono ospitare due o tre persone. Le 150/200 roulotte sono messe un po’ meglio. Per lo più sono piccole, progettate per ospitare due persone, molte senza targa, alcune ricoperte da plastica. Accanto a queste tipologia di alloggio il “camping” offre sistemazioni più spartane come automobili avvolte nel cellophane o piccole baracche residuate dall’ex Gran ghetto perché su terreni esclusi dal sequestro. Dal numero delle “unità abitative” si può ipotizzare la presenza, a struttura piena, di un numero di residenti compreso tra le 1200 e le 1500 persone.
Sono assicurati i servizi minimi che ogni campeggio deve dare ai suoi ospiti perché, di fronte a dove sorgeva lo spaccio-ristorante ora c’è un “negozietto” che espone vestiti e alimentari. A fianco del piccolo emporio una struttura che espone un piccolo barbecue dove abbiamo visto giacere, sdraiata e rassegnata al suo destino, una pecora. Il sospetto che sia destinata a finire sui carboni ardenti è alimentato da una ragazza intenta a risciacquare delle teste di pecora macellate da non molto tempo.
Se l’acqua è assicurata con un numero adeguato di cisterne, quel che manca sono i servizi igienici ed è facile immaginare dove i residenti vadano a fare i loro bisogni come è facile immaginare dove siano smaltiti i rifiuti (montagna all’ingresso a parte) che l’insediamento produce visto che non c’è traccia di cassonetti o altri contenitori per la raccolta dei rifiuti.
L’idea di una normalità di vita la offrono alcune giovani ragazze intente a fare il bucato di poveri vestiti e l’attività dei meccanici alle prese con la manutenzione di macchine e furgoni. Apprezzabile è l’ingegno dei novelli carrozzieri che hanno adattato al trasporto di persone furgoni chiusi. E’ bastato costruire delle panche di legno fissate ai passaruote e la trasformazione, con buona pace del Codice della Strada e della sicurezza per i trasportati, è fatta.
Alle 11 del mattino sono poche le persone presenti nel “camping”, poche decine, come sono poche le persone che attendono il bus per Foggia al riparo degli alberi sula strada provinciale. Dove siano andate le persone che vivono nel “camping” lo possiamo immaginare dal traffico di furgoni (senza finestre) che incrociamo sulla strada. Un’idea rafforzata da un gruppo di braccianti occupati nella raccolta manuale dei pomodori sotto il controllo visivo di “un signore” comodamente seduto su un cassone che prende appunti su di un foglio. Un caporale? Difficile pensare a uno scrittore all’opera sotto il sole e in mezzo a un campo di pomodori.
Com’è potuto risorgere un ghetto a fianco all’ex Gran Ghetto sgomberato? Come sono potute arrivare centinaia di roulotte nell’assoluta indifferenza delle autorità di Polizia e della Magistratura?
Come possono vivere centinaia di lavoratori stagionali in condizioni che definire indecenti non rende lontanamente l’idea delle condizioni dell’area? Il Gran Ghetto assicurava condizioni di vita decisamente migliori del Ghetto attuale.
Perché sono rimaste inascoltate le richieste del Presidente della Regione Puglia Michele Emiliano che ha più volte chiesto lo sgombero forzato del nuovo Ghetto? Non possiamo credere che lo Stato, impegnato ora a combattere le varie mafie nostrane, non sia capace di schierare sul territorio, anche occasionalmente, poche pattuglie da adibire al controllo dei veicoli che escono dal Ghetto e porre sotto sequestro i mezzi privi dei requisiti per la circolazione. Cosa impedisce di porre sotto sequestro tutta l’area per insediamento abusivo e/o per assenza dei minimi requisiti di igiene ambientale e pericolo di diffondere sostanze inquinanti nell’ambiente? (Dove vengono smaltiti gli oli esausti dei motori? Dove vengono smaltiti i rifiuti? Dove vengono smaltiti le deiezioni dei residenti? Che fine fanno gli innumerevoli veicoli sfasciati o a pezzi?).
L’impressione che si ha, osservando il Ghetto, vedendo il traffico di furgoni e i poveri braccianti curvi sui pomodori, è che lo Stato non abbia nessuna intenzione di intervenire con decisione per stroncare l’economia illegale di chi sui braccianti migranti ha costruito un sistema economico, siano essi caporali o pseudo imprenditori agricoli.
Rivolgiamo un appello al Commissario Straordinario nominato dal Governo per contrastare il sorgere dei ghetti nella nostra provincia: nell’attesa di uno sgombero dei ghetti, nell’attesa della costruzione delle zone d’ospitalità temporanea previste per circa 1200 posti letto che ci auguriamo possano essere realizzate nel più breve tempo possibile (mesi e non anni sia chiaro), le chiediamo di assicurare un adeguato servizio di pattugliamento sulle strade secondarie che impiegando pochi equipaggi può stroncare il traffico impunito di braccianti ponendo sotto sequestro i veicoli. In alternativa ci dica il Commissario quali interventi, da subito, ha intenzione di mettere in atto perché uno Stato Democratico, una Società Civile, non può aspettare che, ancora una volta, finisca la stagione agricola, si svuotino i Ghetti, per poi, ossia mai, intervenire per stroncare definitivamente situazioni indegne su cui e facile immaginare che prosperino vecchie e nuove mafie locali e/o internazionali.

Giorgio Cislaghi Circolo Che Guevara Foggia
Vincenzo Rizzi Alternativa Libera Foggia

In un manoscritto “la bibbia della mafia foggiana”. Le rivelazioni del pentito

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Da sinistra, Alfonso Capotosto e Pasquale Moretti. Un tempo Capotosto era braccio destro del boss

Due anni fa chiese di collaborare con la giustizia contro la mafia foggiana ma dopo le prime rivelazioni ritrattò tutto, dicendo di essersi inventato ogni cosa. Ma a seguito del blitz “Reckon” (ottobre 2016), Alfonso Capotosto è tornato a parlare spiegando che nel 2015 ci ripensò a causa di alcune minacce ai suoi parenti. Stavolta, invece, è deciso a collaborare e da gennaio di quest’anno starebbe fornendo elementi utili agli investigatori. A breve difesa e DDA si confronteranno sull’attendibilità del pentito proprio nell’ambito del processo “Reckon”. Alla sbarra ci sono pezzi da novanta del clan Moretti, tutti accusati di traffico e spaccio di droga. In attesa di giudizio il boss Pasquale Moretti, lo stesso Capotosto, Michele Piserchia, Francesco Trisorio e Vittorio Cicinato. Capotosto ha confessato, gli altri si proclamano innocenti. Al vaglio anche la posizione di Cosimo Stramaglia che ha chiesto un patteggiamento a 9 mesi.

Le parole di Capotosto potrebbero avere un peso nella decisione dei giudici. Il 35enne pentito ha detto ai pm della DDA che “a Foggia c’è spaccio libero di droghe leggere mentre sulla cocaina c’è il controllo della Società che si rifornisce di roba a Cerignola”, arrivando a smerciare 10 chili di polvere bianca al mese nel capoluogo.

Capotosto, situato da mesi in una località protetta, ha fornito agli inquirenti anche un manoscritto. Lista di affiliati, somme percepite dai sodali, persone e aziende sotto usura. Una “bibbia” della mafia foggiana con dentro anche i nomi degli acquirenti della droga. 

Un sistema – quello del traffico di coca – che, almeno fino al 2014, vedeva coinvolti sia i Moretti-Pellegrino-Lanza sia i rivali Sinesi-Francavilla, in guerra da circa due anni per la supremazia sul territorio. Ma secondo Capotosto, le due batterie andavano a braccetto nel controllo del traffico di polvere bianca. Solo che ad un certo punto qualcosa si ruppe per contrasti sulla spartizione dei guadagni. Motivo del riacutizzarsi della guerra di mafia? Può darsi.

Di certo la gestione della cocaina era imponente e coi proventi intascati entrambi i clan – sempre stando alle rivelazioni del pentito – davano sostegno economico agli affiliati detenuti. Nel 2014, però, i primi malumori. Qualcuno cominciò a storcere il naso riguardo all’accordo coi Sinesi spingendo per un controllo autonomo degli affari. Infine, la decisione di rompere il “rapporto di lavoro”.

Mafia, il pentito della Società: “Clan mi chiese di attirare poliziotti in una trappola”

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“Gli chiesi cosa volessero da me, che ero pronto a fare tutto purché lasciassero in pace la mia famiglia”. Queste le parole di Alfonso Capotosto, 35 anni (in foto), pentito della mafia foggiana (caso più unico che raro) che ha iniziato a collaborare a gennaio di quest’anno da una località protetta. L’uomo, un tempo vicino al clan Moretti-Pellegrino-Lanza (batteria della “Società Foggiana”), nel 2015 decise di collaborare con la giustizia salvo poi ritrattare per paura di ritorsioni contro i parenti.

Lasciò Foggia con la scusa di voler cambiare vita, in seguito tornò in città per chiarirsi con alcuni uomini del clan e proteggere i familiari. “Potete anche ammazzarmi ma lasciate stare la mia famiglia perché non c’entra niente in mezzo ai fatti nostri. Mi fu risposto – ha riferito il 35enne agli inquirenti – che non c’era alcuna intenzione di far del male ai miei parenti. Mi assicurarono che mi avrebbero dato dei soldi però gli dovevo fare un piacere”.

Un favore non da poco visto che gli fu chiesto di attirare in una trappola due poliziotti in via San Severo. “Ma io non voglio stare in mezzo a queste cose, risposi”. Capotosto ha riferito di non sapere con esattezza cosa volessero fare gli uomini del clan ai due agenti ma è quasi certo che volessero eliminarne uno in particolare. D’altronde già in un’altra inchiesta contro la mala locale, emerse – in alcune intercettazioni – la volontà di alcuni malavitosi di uccidere un ispettore.

“Voglio fare tutti i piaceri che volete ma questo non posso farlo. Non mi dite niente”. A quel punto fu costretto a ritrattare tutto. “Devi firmare un verbale dove dichiari di esserti inventato tutto perché non stavi bene e avevi fumato”. Così fece. Il 35enne si recò in caserma dai carabinieri ritirando quanto aveva iniziato a raccontare agli investigatori.

Ma ad ottobre 2016, nel blitz “Reckon”, Capotosto finì in manette per traffico di droga insieme al boss Pasquale Moretti e ad altri sodali del clan. Successivamente la decisione – l’ennesima – di pentirsi, iniziando una costante collaborazione con la giustizia. Nell’ambito del processo seguente a quell’operazione, i giudici stanno vagliando la veridicità della testimonianza di Capotosto che in questi mesi ha fornito numerosi spunti agli inquirenti. Ha persino fornito una sorta di “bibbia” della malavita foggiana con dentro nomi e aziende vittime di usura e altre dritte relative al business della droga.

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